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sabato 25 giugno 2016

Ecco ciò che attendiamo.


2 Pt 3, 13-14
Secondo la promessa del Signore, noi aspettiamo nuovi cieli e una terra nuova nei quali avrà stabile dimora la giustizia (cfr. Is 65, 17; 66, 22).
Perciò, carissimi, nell'attesa di questi eventi, cercate d'essere senza macchia e irreprensibili davanti a Dio, in pace. La magnanimità del Signore nostro giudicatela come salvezza.




Ez 36, 24-28   Dio rinnoverà il suo popolo
Essi saranno suo popolo ed egli sarà il «Dio-con-loro» (Ap 21, 3).

Vi prenderò dalle genti, †
vi radunerò da ogni terra *
e vi condurrò sul vostro suolo. 

Vi aspergerò con acqua pura e sarete purificati; †
io vi purificherò da tutte le vostre sozzure *
e da tutti i vostri idoli; 

vi darò un cuore nuovo, *
metterò dentro di voi uno spirito nuovo, 
toglierò da voi il cuore di pietra *
e vi darò un cuore di carne. 

Porrò il mio spirito dentro di voi †
e vi farò vivere secondo i miei precetti *
e vi farò osservare e mettere in pratica 
le mie leggi. 

Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; †
voi sarete il mio popolo *
e io sarò il vostro Dio.

Gloria al Padre e al Figlio, * 
e allo Spirito Santo. 
Come era nel principio e ora e sempre, * 
nei secoli dei secoli. Amen .

giovedì 23 giugno 2016

Papa: Benedetto XVI, maestro della teologia in ginocchio.

2016-06-22 Radio Vaticana







Benedetto XVI, ovvero l’esempio più grande di cosa voglia dire fare “teologia in ginocchio”. Papa Francesco firma la prefazione di un libro del Pontefice emerito con una serie di considerazioni sulla testimonianza offerta da Papa Benedetto sul valore della preghiera, cuore di ogni vita sacerdotale. Il volume, edito da Cantagalli, si intitola “Insegnare e imparare l’amore di Dio” ed è il primo di una collana di testi di Benedetto XVI. Il testo della prefazione di Francesco è stato anticipato dl quotidiano La repubblica. Lo riassume in questo servizio Alessandro De Carolis:
È il “fattore decisivo” di un uomo che si consacra a Dio nel sacerdozio. Non il saper fare, anche senza risparmio di energie. Non la “gestione degli affari correnti”. Il fattore decisivo è lo stare “in ginocchio” a “pregare per gli altri, senza interruzione, anima e corpo”, costantemente immersi in Dio, “con il cuore sempre rivolto a Lui, come un amante che in ogni momento pensa all’amato, qualsiasi cosa faccia”. Perché un sacerdote ha la verità del suo ministero dell’“incarnare la presenza di Cristo” fra la gente, altrimenti “non è più vero niente, tutto diventa routine, i sacerdoti quasi stipendiati, i vescovi burocrati e la Chiesa non Chiesa di Cristo, ma un prodotto nostro, una ong in fondo inutile”.
Con la franchezza che gli è propria, Papa Francesco celebra di Benedetto XVI l’esemplarità del suo essere sacerdote – il 28 giugno saranno 65 anni – testimoniata in modo “luminoso” dal Papa emerito soprattutto negli ultimi tre anni, da quando egli stesso – spiegando le ragioni della rinuncia al ministero petrino – affermò di sentirsi chiamato “a salire sul monte” per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione.
“Si vede che è un uomo che veramente crede, che veramente prega; si vede che è un uomo che impersona la santità, un uomo di pace, un uomo di Dio”, riconosce Francesco all’inizio della prefazione, ponendo in risalto come senza quel “profondo radicamento in Dio” sarebbero inutili “capacità organizzativa” e denaro, “presunta superiorità intellettuale” e potere. In Papa Benedetto, ripete Francesco, si coglie limpida “l’essenza dell’agire sacerdotale” e “forse è proprio vero – osserva – che egli ci impartisce nel modo più evidente una tra le sue più grandi lezioni di ‘teologia in ginocchio’”.
Il “vero pregare” che mostra Papa Benedetto con “la sua testimonianza”, prosegue ancora Francesco, non è né “l’occupazione di alcune persone ritenute particolarmente devote e magari considerate poco adatte a risolvere problemi paratici” né, all’opposto, “quel ‘fare’ che invece i più ‘attivi’ credono sia l’elemento decisivo del nostro servizio sacerdotale, relegando così di fatto la preghiera al ‘tempo libero’”. E nemmeno, soggiunge, pregare può essere considerata “una buona pratica per mettersi un po’ in pace la coscienza, o solo un mezzo devoto per ottenere da Dio quello che in un dato momento crediamo ci serva”. “No”, ribadisce Francesco, la preghiera “è il fattore decisivo”, l’“intercessione di cui la Chiesa e il mondo – e tanto più in questo momento di vero e proprio cambio d’epoca – hanno bisogno più che mai, come il pane, più del pane”.
“Perché senza il legame con Dio – annota Francesco citando lo stesso Benedetto XVI – siamo come satelliti che hanno perso la loro orbita e precipitano impazziti nel vuoto, non solo disgregando se stessi, ma minacciando anche gli altri”.

Maranathà-Vieni Signore Gesù!


Rm 8, 18-21

Io ritengo, che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi. 
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio; essa infatti è stata sottomessa alla caducità  non per suo volere, ma per volere di colui che l'ha sottomessa  e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio.

mercoledì 22 giugno 2016

Papa: toccare poveri e esclusi purifica dall'ipocrisia

2016-06-22 Radio Vaticana







“Quando ci presentiamo a Gesù non è necessario fare lunghi discorsi, bastano poche parole purchè piene di fiducia”. Così il Papa nella catechesi dell’udienza generale di oggi- l'ultima prima della pausa estiva- in cui la parabola del lebbroso purificato da Gesù per la sua fede, offre al Pontefice l’occasione  per lanciare un appello contro l’esclusione: "toccare il povero", dice Francesco, "può purificarci dall’ipocrisia". Poi il riferimento ai rifugiati:un gruppo proveniente dall’Africa, siede insolitamente ai suoi piedi e il Papa non esita a dire “sono nostri fratelli, il cristiano non esclude nessuno”. Il servizio di Gabriella Ceraso:
 
Salgono con Francesco sul Sagrato della Basilica di S. Pietro e si siedono ai suoi piedi. E’ una scena inconsueta a segnare l’udienza generale di oggi: un gruppo di giovani immigrati africani assistiti dalla Caritas di Firenze con uno striscione che chiede vicinanza aspettano il Papa scendere dalla jeep e lui li accoglie e li porta con sé perché ascoltino, assieme agli oltre 15 mila fedeli presenti, il “segno” della misericordia che è nella parabola del lebbroso dell’evangelista Luca.
Davanti a Gesù non servono tante parole, ma la fede
“Se vuoi puoi purificarmi”. E’ una richiesta di “risanamento nel corpo e nell’anima” che il lebbroso rivolge a Gesù, perché quest’uomo “aveva una vita triste”, osserva Francesco, in quanto ritenuto impuro per la maledizione della malattia e costretto a tenersi lontano da tutti, da Dio e dagli uomini. Eppur,e quel lebbroso non si rassegna e infrange anche la legge, entrando in città, pur di raggiungere Gesù, e lo fa per fede:
“Riconosce la potenza di Gesù: è sicuro che abbia il potere di sanarlo e che tutto dipenda dalla sua volontà. Questa fede è la forza che gli ha permesso di rompere ogni convenzione e di cercare l’incontro con Gesù e, inginocchiandosi davanti a Lui, lo chiama 'Signore'. La supplica del lebbroso mostra che quando ci presentiamo a Gesù non è necessario fare lunghi discorsi. Bastano poche parole, purché accompagnate dalla piena fiducia nella sua onnipotenza e nella sua bontà. Affidarci alla volontà di Dio significa infatti rimetterci alla sua infinita misericordia".
Anche il Papa la sera prega come il lebbroso
Ma perchè non fare ciascuno di noi a Gesù la stessa preghiera del lebbroso? E’ il Papa stesso a chiederlo e a farlo ogni giorno, come rivela in confidenza ai fedeli:
“La sera, prima di andare a letto, io prego questa breve preghiera: ‘Signore, se vuoi, puoi purificarmi!’. E prego cinque ‘Padre nostro’, uno per ogni piaga di Gesù, perché Gesù ci ha purificato con le piaghe. Ma se questo lo faccio io, potete farlo voi anche, a casa vostra, e dire: ‘Signore, se vuoi, puoi purificarmi!’ e pensare alle piaghe di Gesù e dire un 'Padre nostro' per ognuna. E Gesù ci ascolta sempre”.
Il racconto evangelico rivela però che è anche Gesù ad essere “profondamente colpito dal lebbroso”, tanto da tendere la mano e “persino toccarlo”, infrangendo così la Legge di Mosè che proibiva di avvicinarsi a un simile malato. E anche qui lo sguardo del Pontefice va al nostro quotidiano, illuminato dall’insegnamento di Gesù:
Toccare poveri e esclusi ci purifica da ipocrisia
“Quante volte noi incontriamo un povero che ci viene incontro! Possiamo essere anche generosi, possiamo avere compassione, però di solito non lo tocchiamo. Gli offriamo la moneta, ma evitiamo di toccare la mano. E dimentichiamo che quello è il corpo di Cristo! Gesù ci insegna a non avere timore di toccare il povero e l’escluso, perché Lui è in essi. Toccare il povero può purificarci dall’ipocrisia e renderci inquieti per la sua condizione”.
“Toccare gli esclusi”, è questo che sta a cuore al Papa: e oggi gli esclusi sono anche giovani, come gli africani, immigrati, rifugiati, che sono sul sagrato della Basilica. “Molti pensano”, osserva Francesco, “che è meglio rimangano nei loro Paesi, luoghi però di sofferenza". Da qui l’appello:
“Sono i nostri rifugiati, ma tanti li considerano esclusi. Per favore, sono i nostri fratelli! Il cristiano non esclude nessuno, dà posto a tutti, lascia venire tutti”.
Prendere atto delle nostre miserie
Concludendo la parabola del lebbroso, il Papa osserva che Gesù dopo la guarigione lo invita a “non parlarne con nessuno”, ma ad andare a “mostrarsi al sacerdote”. Ed è da questa disposizione di Gesù che il Papa sottolinea tre aspetti: la grazia che agisce in noi non “ricerca il sensazionalismo”; la riammissione dell’escluso nella comunità ne completa la guarigione e ne fa un testimone di Gesù. La grazia dunque ci guarisce nel profondo :
“La forza della compassione con cui Gesù ha guarito il lebbroso ha portato la fede di quest’uomo ad aprirsi alla missione. Era un escluso, adesso è uno di noi.”
Dunque, la preghiera del lebbroso sia il nostro modo di rivolgerci a Dio, prendendo atto delle nostre miserie, "senza coprirle con le buone maniere". Questo l'invito con cui il Papa conclude l'udienza ripetendo per tre volte assieme a una piazza gremita che prega, con lui, all'unisono: “Signore se vuoi puoi purificarmi”.

lunedì 20 giugno 2016

Papa: cristiani si guardino allo specchio prima di giudicare

2016-06-20 Radio Vaticana







Prima di giudicare gli altri guardarsi allo specchio per vedere come siamo. E’ l’esortazione di Papa Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta, l'ultima con omelia, prima della pausa estiva. Il Pontefice ha sottolineato che ciò che distingue il giudizio di Dio dal nostro non è l’onnipotenza ma la misericordia. Il servizio diAlessandro Gisotti:
 
Il giudizio appartiene solo a Dio, perciò se non vogliamo essere giudicati, anche noi non dobbiamo giudicare gli altri. E’ quanto sottolineato da Francesco nella Messa a Casa Santa Marta, incentrata sul Vangelo odierno. Tutti noi, ha osservato, vogliamo che nel Giorno del Giudizio “il Signore ci guardi con benevolenza, che il Signore si dimentichi di tante cose brutte che abbiamo fatto nella vita”.
Gesù ci chiama ipocriti quando giudichiamo gli altri
Per questo, se “tu giudichi continuamente gli altri – ha ammonito – con la stessa misura tu sarai giudicato”. Il Signore, ha proseguito, ci chiede dunque di guardarci allo specchio:
“Guardati allo specchio, ma non per truccarti, perché non si vedano le rughe. No, no, no, quello non è il consiglio! Guardati allo specchio per guardare te, come tu sei. ‘Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio di tuo fratello e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio?’ O come dirai a tuo fratello ‘Lascia che tolga la pagliuzza dal tuo occhio’, mentre nel tuo occhio c’è la trave?’ E come ci qualifica il Signore, quando facciamo questo? Una sola parola: ‘Ipocrita, togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello’.
Pregare per gli altri, invece di giudicarli
Il Signore, ha detto il Papa, si vede che “un po’ si arrabbia qui”, ci dà degli ipocriti quando ci mettiamo “al posto di Dio”. Questo, ha aggiunto, è quello che il serpente ha convinto a fare ad Adamo ed Eva: “Se voi mangiate di questo, sarete come Lui”. Loro, ha detto, “volevano mettersi al posto di Dio”:
“Per questo è tanto brutto giudicare. Il giudizio solo a Dio, solo a Lui! A noi l’amore, la comprensione, il pregare per gli altri quando vediamo cose che non sono buone, ma anche parlare loro: ‘Ma, senti, io vedo questo, forse…’ Ma mai giudicare. Mai. E questa è ipocrisia, se noi giudichiamo.”
Al nostro giudizio manca la misericordia, solo Dio può giudicare
Quando giudichiamo, ha detto ancora, “ci mettiamo al posto di Dio”, ma “il nostro giudizio è un povero giudizio”, mai “può essere un vero giudizio”. “E perché – si domanda il Papa – il nostro non può essere come quello di Dio? Perché Dio è Onnipotente e noi no?” No, è la risposta di Francesco, “perché al nostro giudizio manca la misericordia. E quando Dio giudica, giudica con misericordia”:
“Pensiamo oggi a questo che il Signore ci dice: non giudicare, per non essere giudicato; la misura, il modo, la misura con la quale giudichiamo sarà la stessa che useranno con noi; e, terzo, guardiamoci allo specchio prima di giudicare. ‘Ma questa fa quello… questo fa quello…’ ‘Ma, aspetta un attimo…’, mi guardo allo specchio e poi penso. Al contrario sarò un ipocrita, perché mi metto al posto di Dio e, anche, il mio giudizio è un povero giudizio; gli manca qualcosa di tanto importante che ha il giudizio di Dio, gli manca la misericordia. Che il Signore ci faccia capire bene queste cose”.  

sabato 18 giugno 2016

Udienza giubilare su Misericordia e conversione

2016-06-18 Radio Vaticana







Papa Francesco ha tenuto questa mattina - come ogni sabato - l'Udienza giubilare in piazza San Pietro sul tema: Misericordia e conversione. Questa la catechesi del Papa:
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Dopo la sua risurrezione, Gesù apparve diverse volte ai discepoli, prima di ascendere alla gloria del Padre. Il brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato (Lc 24,45-48) narra una di queste apparizioni, nella quale il Signore indica il contenuto fondamentale della predicazione che gli apostoli dovranno offrire al mondo. Possiamo sintetizzarla con due parole: “conversione” e “perdono dei peccati”. Sono due aspetti qualificanti della misericordia di Dio che, con amore, ha cura di noi. Oggi prendiamo in considerazione la conversione.
Cos’è la conversione? Essa è presente in tutta la Bibbia, e in modo particolare nella predicazione dei profeti, che invitano continuamente il popolo a “ritornare al Signore” chiedendogli perdono e cambiando stile di vita. Convertirsi, secondo i profeti, significa cambiare direzione di marcia e rivolgersi di nuovo al Signore, basandosi sulla certezza che Egli ci ama e il suo amore è sempre fedele. Tornare al Signore.
Gesù ha fatto della conversione la prima parola della sua predicazione: «Convertitevi e credete nel vangelo» (Mc 1,15), cioè guardate e tornate indietro; questo è convertirsi. È con questo annuncio che Egli si presenta al popolo, chiedendo di accogliere la sua parola come l’ultima e definitiva che il Padre rivolge all’umanità (cfr Mc 12,1-11). Rispetto alla predicazione dei profeti, Gesù insiste ancora di più sulla dimensione interiore della conversione. In essa, infatti, tutta la persona è coinvolta, cuore e mente, per diventare una creatura nuova, una persona nuova. Cambia il cuore e uno si rinnova.
Quando Gesù chiama alla conversione non si erge a giudice delle persone, ma lo fa a partire dalla vicinanza, dalla condivisione della condizione umana, e quindi della strada, della casa, della mensa... La misericordia verso quanti avevano bisogno di cambiare vita avveniva con la sua presenza amabile, per coinvolgere ciascuno nella sua storia di salvezza. Gesù persuadeva la gente con l’amabilità, con l’amore  e con questo suo comportamento Gesù toccava nel profondo il cuore delle persone ed esse si sentivano attratte dall’amore di Dio e spinte a cambiare vita. Ad esempio, le conversioni di Matteo (cfr Mt 9,9-13) e di Zaccheo (cfr Lc 19,1-10) sono avvenute proprio in questo modo, perché hanno sentito di essere amati da Gesù e, attraverso di Lui, dal Padre. La vera conversione avviene quando accogliamo il dono della grazia; e un chiaro segno della sua autenticità è che ci accorgiamo delle necessità dei fratelli e siamo pronti ad andare loro incontro.
Cari fratelli e sorelle, quante volte anche noi sentiamo l’esigenza di un cambiamento che coinvolga tutta la nostra persona! Ma quante volte ci diciamo: “Devo cambiare, io non posso continuare così. La mia vita, per questa strada, non darà frutto, sarà una vita inutile e io non sarò felice”. Ma quante volte vengono questi pensieri, eh? Quante volte ... E Gesù accanto a noi, con la mano tesa ci dice: “Ma vieni: vieni da me. Il lavoro lo faccio io. Io ti cambierò il cuore. Io ti cambierò la vita. Io ti farò felice.” Ma noi, crediamo io questo o no? Crediamo o no? Cosa pensate voi: credete in questo o no? Meno applauso più voce: credete o non credete? Piazza risponde: “Sì”. È così! E Gesù che è con noi ci invita a cambiare vita. È Lui, con lo Spirito Santo che ci semina questa inquietudine per cambiare vita ed essere un pò migliori. Seguiamo dunque questo invito del Signore e non poniamo resistenze, perché solo se ci apriamo alla sua misericordia, noi troviamo la vera vita e la vera gioia. Soltanto spalancare la porta e Lui fa tutto il resto. Lui fa  tutto, ma spalancare il cuore perchè Lui possa guarire e portarci avanti. Vi assicuro che saremo più felici. Grazie. 

venerdì 17 giugno 2016

Il Papa a Diocesi di Roma: rinunciare ai recinti e avvicinarsi alle famiglie

2016-06-16 Radio Vaticana






La pastorale familiare raggiunga ogni famiglia, abbia un atteggiamento di compassione e valorizzi la testimonianza degli anziani. Questo, in sintesi, l’invito del Papa che, nel tardo pomeriggio, ha aperto il Convegno della Diocesi di Roma, nella Basilica di San Giovanni in Laterano. Il tema al centro della riflessione è “‘La letizia dell’amore’: il cammino delle famiglie a Roma alla luce dell’Esortazione apostolica ‘Amoris letitia’ di Papa Francesco”. L’incontro è iniziato con il saluto del cardinale vicario Agostino Vallini. I lavori proseguono domani sera con i cinque laboratori tematici nelle 36 prefetture della diocesi di Roma. Le conclusioni, con la relazione del cardinale vicario e la presentazione degli orientamenti pastorali, sono state fissate per il 19 settembre. Il servizio di Debora Donnini:
 
Percorrere le strade aperte dal cammino sinodale per comprendere meglio l’Esortazione apostolica “Amoris laetitia”: è quanto il Papa intende fare con il suo discorso al Convegno della Diocesi di Roma. Per aiutare a fare questo delinea, attraverso immagini bibliche, tre fondamentali questioni: arrivare a tutte le famiglie, non mettere in campo una pastorale dei “ghetti” e dare spazio agli anziani con la loro testimonianza.
La vita di ogni famiglia deve essere trattata con cura
Francesco ricorre all’immagine di Mosè a cui Dio dice davanti al roveto ardente di togliersi i sandali. Un’immagine che si declina nel ricordare che i temi affrontati nei due Sinodi non erano “un argomento qualsiasi”, ma “i volti concreti di tante famiglie”:
“Come aiuta dare volto ai temi! E come aiuta ad accorgersi che dietro alla carta c’è un volto, eh? Come aiuta! Ci libera dall’affrettarci per ottenere conclusioni ben formulate ma molte volte carenti di vita; ci libera dal parlare in astratto, per poterci avvicinare e impegnarci con persone concrete. Ci protegge dall’ideologizzare la fede mediante sistemi ben architettati ma che ignorano la grazia”.
“È la fede  - dice - che ci spinge a non stancarci di cercare la presenza di Dio nei cambiamenti della storia”. Le famiglie “nelle nostre parrocchie”, con le loro complessità, non sono, dunque, “un problema” ma “un’opportunità”:
“Opportunità che ci sfida a suscitare una creatività missionaria capace di abbracciare tutte le situazioni concrete, nel nostro caso, delle famiglie romane”.
Bisogna arrivare alle famiglie dei nostri quartieri, non solo a quelle che vengono in parrocchia. E questo incontro ci sfida a non dare nessuno per perso:
“Ci sfida a non abbandonare nessuno perché non è all’altezza di quanto si chiede da lui. E questo ci impone di uscire dalle dichiarazioni di principio per addentrarci nel cuore palpitante dei quartieri romani e, come artigiani, metterci a plasmare in questa realtà il sogno di Dio, cosa che possono fare solo le persone di fede, quelle che non chiudono il passaggio all’azione dello Spirito. E che si sporcano le mani”.
In una parola, sottolinea Papa Francesco, questa riflessione “ci chiede di toglierci le scarpe per scoprire la presenza di Dio”:
“E l’identità non si fa nella separazione: l’identità si fa nell’appartenenza. La mia appartenenza al Signore: quello mi dà identità. Non staccarmi dagli altri perché non mi contagino”.
Serve una logica della compassione verso le famiglie
La seconda immagine è quella del fariseo che prega ringraziando Dio di non essere come gli altri uomini. Il Papa mette in guardia dalla tentazione di credere di guadagnare in identità, quando ci si differenzia dagli altri. Tutti, invece, “abbiamo bisogno di convertirci” e gridare assieme al pubblicano: “Dio mio abbi pietà di me che sono un peccatore”, dice Francesco. Questo ci fa avere un atteggiamento di umiltà, fa “guardare le famiglie con la delicatezza con cui le guarda Dio”. Ed è proprio l’accento posto sulla misericordia ad aiutare ad avere “il realismo di Dio”:
“Nulla è paragonabile al realismo evangelico, che non si ferma alla descrizione delle situazioni, delle problematiche – meno ancora del peccato – ma che va sempre oltre e riesce a vedere dietro ogni volto, ogni storia, ogni situazione, un’opportunità, una possibilità. Il realismo evangelico si impegna con l’altro, con gli altri e non fa degli ideali e del ‘dover essere’ un ostacolo per incontrarsi con gli altri nelle situazioni in cui si trovano”.
Questo non significa “non essere chiari nella dottrina”  ma “evitare di cadere in giudizi che non assumono la complessità della vita”. “Il realismo evangelico si sporca le mani perché sa che ‘grano e zizzania’ crescono assieme”, afferma. Citando “Amoris laetitia”, Francesco dice di comprendere “coloro che preferiscono una pastorale più rigida che non dia luogo ad alcuna confusione”. Ma “credo sinceramente”,  afferma che Gesù  vuole una Chiesa che “nel momento in cui esprime chiaramente il suo insegnamento obiettivo”, “non rinuncia al bene possibile, benché corra il rischio di sporcarsi con il fango della strada”. In una parola: una Chiesa capace di assumere “una logica della compassione verso le persone fragili”.
Il Papa, parlando a braccio, fa riferimento ad un capitello che si trova nella Basilica di Santa Maria Maddalena a Vélazay, in Francia, dove Giuda impiccato viene portato sulle spalle da Gesù. E a don Primo Mazzolari che ha capito la complessità della logica del Vangelo dice:
“E quello che si è sporcato di più le mani, è Gesù. Gesù si è sporcato di più. Non era un pulito ma andava dalla gente, tra la gente e prendeva la gente come era, non come doveva essere. Torniamo all’immagine biblica: 'Ti ringrazio, Signore, perché sono dell’Azione Cattolica, o di questa associazione, o della Caritas, o di questo o di quello, e non come questi che abitano nei quartieri e sono ladri e delinquenti': questo non aiuta la pastorale”.
Gli anziani, preziosi testimoni dell’amore
L’ultima immagine richiamata è quella del profeta Gioele che parla di anziani che faranno sogni profetici. Il Papa sa le difficoltà dei giovani - il 40% dei ragazzi dai 25 anni in giù non ha lavoro – e si chiede , dunque,  quale speranza possano avere. Torna, dunque, un tema caro a Francesco: quello degli anziani e della loro testimonianza. I nonni possono, infatti, testimoniare la gioia di aver fatto una scelta d’amore e averla preservata nel tempo.  Scartare gli anziani, come spesso fa la società,  porta a perdere “la ricchezza della loro saggezza”, avverte il Papa . E proprio la “mancanza di modelli”, non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”, cioè di fare progetti perché si ha paura del futuro. E il Papa ha aggiunto, parlando ancora a braccio, riferimenti alla sua esperienza durante le Messe del mattino a Casa Santa Marta, dove vengono tante coppie che fanno 50 o 60 anni di matrimonio. E il Pontefice esorta a mostrare questo amore ai giovani che invece, magari dopo due o tre anni, vogliono tornare “da mamma”. La testimonianza di chi ha lottato per qualcosa che valeva la pena, invece, aiuta ad alzare lo sguardo, ed è preziosa:
“Loro si sentono scartati, quando non disprezzati. A noi piace, nei programmi pastorali: ‘Questa è l’ora del coraggio’, ‘questa è l’ora dei laici’, ‘questa è l’ora …’. Ma se io dovessi dire, questa è l’ora dei nonni! ‘Ma, Padre, Padre, lei va indietro, lei è preconciliare’! Eh: è l’ora dei nonni, che i nonni sognino, e i giovani impareranno a profetizzare, cioè a fare realtà con la loro forza, con la loro immaginazione, con il loro lavoro, i sogni dei nonni”.
Bisogna rinunciare ai recinti per incontrare gli altri
“Rinunciamo ai recinti”, conclude il Papa, esortando ad “entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri”.  L’invito di Francesco è quello di sviluppare una pastorale familiare “capace di accogliere, accompagnare, discernere e integrare”, e di conoscere “la forza della  tenerezza”, “perché la vita a noi affidata” possa svilupparsi secondo “il sogno di Dio”.

giovedì 16 giugno 2016

Papa: “Padre Nostro” è pietra angolare della nostra preghiera

2016-06-16 Radio Vaticana







Pregando il “Padre Nostro” sentiamo il suo sguardo su di noi. E’ quanto affermato da Francesco nella Messa mattutina a Casa Santa Marta. Il Papa ha sottolineato che, per un cristiano, le preghiere non sono “parole magiche” ed ha rammentato che “Padre” è la parola che Gesù pronuncia sempre nei momenti forti della sua vita. Il servizio di Alessandro Gisotti:
 
Non sprecare parole come i pagani, non pensare che le preghiere siano “parole magiche”. Papa Francesco ha preso spunto dal Vangelo odierno, in cui Gesù insegna la preghiera del “Padre Nostro” ai suoi discepoli per soffermarsi sul valore del pregare il Padre nella vita del cristiano. Gesù, ha detto, “indica proprio lo spazio della preghiera in una parola: Padre”.
Gesù si rivolge sempre al Padre nei momenti forti della sua vita
Questo Padre, ha osservato, “che sa di quali cose abbiamo bisogno, prima che noi le chiediamo”. Un Padre che “ci ascolta di nascosto, nel segreto, come Lui, Gesù, consiglia di pregare: nel segreto”.
“Questo Padre che ci dà proprio l’identità di figli. E quando io dico ‘Padre’ ma arrivo fino alle radici della mia identità: la mia identità cristiana è essere figlio e questa è una grazia dello Spirito. Nessuno può dire ‘Padre’ senza la grazia dello Spirito. ‘Padre’ che è la parola che Gesù usava nei momenti più forti: quando era pieno di gioia, di emozione: ‘Padre, ti rendo lode, perché tu riveli queste cose ai bambini’; o piangendo, davanti alla tomba del suo amico Lazzaro: ‘Padre, ti rendo grazie perché mi hai ascoltato’; o poi, dopo, alla fine, nei momenti finali della sua vita, alla fine”:
“Nei momenti più forti”, ha evidenziato il Papa, Gesù dice: Padre, “è la parola che più usa”, “Lui parla col Padre. E’ la strada della preghiera e, per questo – ha ribadito – io mi permetto di dire, è lo spazio di preghiera”. “Senza sentire che siamo figli, senza sentirsi figlio, senza dire Padre– ha ammonito – la nostra preghiera è pagana, è una preghiera di parole”.
Pregare il Padre è la pietra d’angolo, Lui conosce ogni nostro bisogno
Certo, ha soggiunto, si possono pregare la Madonna, gli angeli e i Santi. “Ma – ha ammonito – la pietra d’angolo della preghiera è Padre”. Se non siamo capaci di iniziare la preghiera da questa parola, ha avvertito, “la preghiera non andrà bene”:
Padre. E’ sentire lo sguardo del Padre su di me, sentire che quella parola ‘Padre’ non è uno spreco come le parole delle preghiere dei pagani: è una chiamata a Colui che mi ha dato l’identità di figlio. Questo è lo spazio della preghiera cristiana – ‘Padre’ – e poi preghiamo tutti i Santi, gli Angeli, facciamo anche le processioni, i pellegrinaggi… Tutto bello, ma sempre incominciando con ‘Padre’ e nella consapevolezza che siamo figli e che abbiamo un Padre che ci ama e che conosce i nostri bisogni tutti. Questo è lo spazio”.
Francesco ha così rivolto il pensiero alla parte in cui nella preghiera del “Padre Nostro”, Gesù fa riferimento al perdono del prossimo come Dio perdona noi. “Se lo spazio della preghiera è dire Padre – ha rilevato – l’atmosfera della preghiera è dire ‘nostro’: siamo fratelli, siamo famiglia”. Ha così ricordato cosa è successo con Caino che ha odiato il figlio del Padre, ha odiato suo fratello. Il Padre, ha ripreso, ci dà l’identità e la famiglia. “Per questo – ha affermato il Papa – è tanto importante la capacità di perdono, di dimenticare, dimenticare le offese, quella sana abitudine ‘ma, lasciamo perdere… che il Signore faccia Lui’ e non portare il rancore, il risentimento, la voglia di vendetta”.
Ci fa bene fare un esame di coscienza su come preghiamo il Padre
“Pregare il Padre perdonando tutti, dimenticando le offese – ha evidenziato – è la migliore preghiera che tu possa fare”:
“E’ buono che alcune volte facciamo un esame di coscienza su questo. Per me Dio è Padre, io lo sento Padre? E se non lo sento così, ma chiedo allo Spirito Santo che mi insegni a sentirlo così. Ed io sono capace di dimenticare le offese, di perdonare, di lasciar perdere e se no, chiedere al Padre ‘ma anche questi sono i tuoi figli, mi hanno fatto una cosa brutta… aiutami a perdonare’?. Facciamo questo esame di coscienza su di noi e ci farà bene, bene, bene. ‘Padre’ e ‘nostro’: ci dà l’identità di figli e ci dà una famiglia per ‘andare’ insieme nella vita”.

mercoledì 15 giugno 2016

La catechesi del Papa all'Udienza generale: la misericordia è luce

2016-06-15 Radio Vaticana






Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Un giorno Gesù, avvicinandosi alla città di Gerico, compì il miracolo di ridare la vista a un cieco che mendicava lungo la strada (cfr Lc 18,35-43). Oggi vogliamo cogliere il significato di questo segno perché tocca anche noi direttamente. L’evangelista Luca dice che quel cieco era seduto sul bordo della strada a mendicare (cfr v. 35). Un cieco a quei tempi – ma anche fino a non molto tempo fa – non poteva che vivere di elemosina. La figura di questo cieco rappresenta tante persone che, anche oggi, si trovano emarginate a causa di uno svantaggio fisico o di altro genere. E’ separato dalla folla, sta lì seduto mentre la gente passa indaffarata; e la strada, che può essere un luogo di incontro, per lui invece è il luogo della solitudine.
E’ triste l’immagine di un emarginato, soprattutto sullo sfondo della città di Gerico, la splendida e rigogliosa oasi nel deserto. Sappiamo che proprio a Gerico giunse il popolo di Israele al termine del lungo esodo dall’Egitto: quella città rappresenta la porta d’ingresso nella terra promessa. Ricordiamo le parole che Mosè pronuncia in quella circostanza: «Se vi sarà in mezzo a te qualche tuo fratello che sia bisognoso in una delle tue città nella terra che il Signore, tuo Dio, ti dà, non indurirai il tuo cuore e non chiuderai la mano davanti al tuo fratello bisognoso. Poiché i bisognosi non mancheranno mai nella terra, allora io ti do questo comando e ti dico: Apri generosamente la mano al tuo fratello povero e bisognoso nella tua terra» (Dt 15,7.11). E’ stridente il contrasto tra questa raccomandazione della Legge di Dio e la situazione descritta dal Vangelo: mentre il cieco grida invocando Gesù, la gente lo rimprovera per farlo tacere. Non hanno compassione di lui, anzi, provano fastidio per le sue grida. L’indifferenza e l’ostilità rendono ciechi e sordi, impediscono di vedere i fratelli e non permettono di riconoscere in essi il Signore.
Notiamo un particolare interessante. L’Evangelista dice che qualcuno della folla spiegò al cieco il motivo di tutta quella gente dicendo: «Passa Gesù, il Nazareno!» (v. 37). Il passaggio di Gesù è indicato con lo stesso verbo con cui nel libro dell’Esodo si parla del passaggio dell’angelo sterminatore che salva gli Israeliti in terra d’Egitto (cfr Es 12,23). È il “passaggio” della pasqua, l’inizio della liberazione. Al cieco, quindi, è come se venisse annunciata la sua pasqua. Senza lasciarsi intimorire, il cieco grida più volte verso Gesù riconoscendolo come il Figlio di Davide, il Messia atteso che, secondo il profeta Isaia, avrebbe aperto gli occhi ai ciechi (cfr Is 35,5). A differenza della folla, questo cieco vede con gli occhi della fede. Grazie ad essa la sua supplica ha una potente efficacia. Infatti, all’udirlo, «Gesù si fermò e ordinò che lo conducessero da lui» (v. 40). Così facendo Gesù toglie il cieco dal margine della strada e lo pone al centro dell’attenzione dei suoi discepoli e della folla. Si realizza così un duplice passaggio. Primo: la gente aveva annunciato una buona novella al cieco, ma non voleva avere niente a che fare con lui; ora Gesù obbliga tutti a prendere coscienza che il buon annuncio implica porre al centro della propria strada colui che ne era escluso. Secondo: a sua volta, il cieco non vedeva, ma la sua fede gli apre la via della salvezza, ed egli si ritrova in mezzo a quanti sono scesi in strada per vedere Gesù. Il passaggio del Signore è un incontro di misericordia che tutti unisce intorno a Lui per permettere di riconoscere chi ha bisogno di aiuto e di consolazione.
Gesù si rivolge al cieco e gli domanda: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (v. 41). Queste parole di Gesù sono impressionanti: il Figlio di Dio ora sta di fronte al cieco come un umile servo. Dio si fa servo dell’uomo peccatore. E il cieco risponde a Gesù non più chiamandolo “Figlio di Davide”, ma “Signore”, il titolo che la Chiesa fin dagli inizi applica a Gesù Risorto. Il cieco chiede di poter vedere di nuovo e il suo desiderio viene esaudito: «Abbi di nuovo la vista! La tua fede ti ha salvato» (v. 42). Egli ha mostrato la sua fede invocando Gesù e volendo assolutamente incontrarlo, e questo gli ha portato in dono la salvezza. Grazie alla fede ora può vedere e, soprattutto, si sente amato da Gesù. Per questo il racconto termina riferendo che il cieco «cominciò a seguirlo glorificando Dio» (v. 43): si fa discepolo incamminandosi dietro al Signore ed entrando a far parte della sua comunità. Colui che volevano far tacere, adesso testimonia ad alta voce il suo incontro con Gesù di Nazaret, e «tutto il popolo, vedendo, diede lode a Dio» (v. 43). Avviene un secondo miracolo: ciò che è accaduto al cieco fa sì che anche la gente finalmente veda. La stessa luce illumina tutti accomunandoli nella preghiera di lode. Così Gesù effonde la sua misericordia su tutti coloro che incontra: li chiama, li raduna, li guarisce e li illumina, creando un nuovo popolo che celebra le meraviglie del suo amore misericordioso.